Recensioni ROMA CINEMA DOC 2018

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RECENSIONI DEI 18 FILM VINCITORI DELLA SECONDA EDIZIONE DEL ROMA CINEMA DOC.

Le recensioni, che verranno esposte durante la serata del 19 Maggio, sono a cure degli studiosi di cinema Gianni Barchiesi, Luigi Valenti, Giacomo Fiorani, Nicolas Bilchi



NO-SPACE

Regia: Julio Mas Alcaraz

Spagna, 2017 – 12’

Sezione: International Documentary

Sinossi: Il documentario racconta la storia di Enrique B.P., un uomo senza fissa dimora che ogni notte dorme nel terminal 4 dell’aeroporto di Madrid. Lo seguiamo per un giorno ascoltando i suoi pensieri, la sua idea su quello che chiama non-spazio, e la relazione tra questo concetto e la sua situazione personale.

Un estratto de La Passione Secondo Matteo di Bach fa la sua comparsa relativamente presto in No-space. La sua apparizione ha un immediato impatto emotivo e colora retroattivamente le poche immagini che hanno aperto il film: immagini di un uomo in movimento – in cammino o fermo dentro un mezzo di locomozione. La sua destinazione, riportata da una voce fuori campo, è il terminal di un aeroporto (il T4 di Madrid-Barajas).

Eppure, questa voce ci suggerisce subito che un aeroporto non è uno spazio tradizionale, e infatti ciò che veramente domina No-space è l’idea di movimento. Si muove il nostro uomo e si muovono le masse di altri individui, spesso offuscate sullo sfondo; si muovono i mezzi con cui egli si muove, i nastri sui cui pazienta (come una valigia al ritorno bagagli); ci muoviamo noi, come si possono muovere gli spettatori, portati di peso da una videocamera nello spazio ipermoderno di un terminal e (s-) mossi dal tono solenne e vagamente rituale della composizione di Bach.

I senza fissa dimora che, come il nostro uomo, abitano il non-spazio del T4 si confondono con la massa dei viaggiatori, eseguendo una continua performance mimetica per non tradirsi come entità alla ricerca di una stasi in un non-spazio che ne è l’antitesi. Si fermano solamente la notte, con lo scemare della funzione transitoria del terminal, ed è allora che si fanno da parte e si incuneano tra i vetri dell’aeroporto, posandosi un poco.

É nel rappresentare questi momenti di stasi, che No-space dimostra matura coscienza del suo contenuto e del suo essere cinema: sebbene all’inizio la videocamera si muova attorno a questi corpi fermi, ogni perlustrazione è fatta culminare in un fermo-immagine, che fa da contrappunto al resto del film. Ed è quando ci si ferma davanti ai corpi immobili, che si riaccende un barlume di senso del luogo nel non-spazio del T4.

Gianni Barchiesi


IL GIORNO DEL MURO

Regia: Daniele Greco

Italia, 2017 – 14’

Sezione: Italian Documentary

Sinossi: In un borgo di montagna nel cuore della Sicilia, la festa del Santo è l’occasione per offrire i frutti della terra e rivivere, nella ripetizione di gesti atavici, un rito dalle origini antiche, che mescola miti religiosi a costumi tribali.

A Capizzi, nel messinese, il 26 luglio di ogni anno si svolge la cosiddetta Festa dei miracoli, in ricordo della spogliazione da parte degli spagnoli delle sacre reliquie di San Giacomo, Santo Protettore del paese, avvenuta nel 1435.

Il documentario Il giorno del muro segue la Festa dei miracoli dalla sua preparazione, che avviene settimane prima, al suo momento finale nel giorno dei festeggiamenti, culminante nell’abbattimento del muro di una casa tramite le travi del fercolo (in siciliano “a vara”) che trasporta le reliquie di San Giacomo, portato in spalla dai cittadini maschi.

Assistiamo, tramite un abile montaggio alternato, da un lato alla preparazione da parte dei capitini dei prodotti tipici del paese, che svetteranno durante la festa in cima al fercolo, come offerta e simbolo della devozione al santo, e dall’altro all’organizzazione vera e propria del rituale, con il controllo del fercolo e le prove della banda del paese.

L’intero documentario è scandito dai gesti lenti ma puntuali della gente del luogo, che concorrono tutti, donne e uomini, e ognuno secondo le proprie abilità, all’esito finale della celebrazione della festa per il santo, il tutto secondo un ritmo che sembra seguire quello della natura stessa, in cui ogni singolo elemento è collegato a tutti gli altri nel suo perfetto meccanismo.

Sono quindi le azioni dei capitini, accompagnate dal suono che producono e da quelli della natura circostante, a portare avanti la narrazione per immagini: uniche protagoniste del documentario, esse prendono il totale sopravvento sulla parola, essendo esse stesse un potente tramite di significato e rimandandoci a un passato antico in cui il “fare” era un già un modo di esprimersi e di relazionarsi con il mondo.

Luigi Valenti


MY LIFE I DON’T WANT

Regia: Nyan Kyal Say

Birmania, 2016 – 11’

Sezione: International Short Film

Sinossi: Un corto animato sulla vita di una ragazza birmana ispirato a eventi reali.

Corto di animazione, privo di dialoghi e con una rappresentazione minimalista e stilizzata, My Life I Don’t Want riesce con efficacia e lirismo a descrivere e denunciare la condizione della donna in una società patriarcale e maschilista. La protagonista, attraversando le età di bambina, ragazza e donna, subisce semplicemente in quanto soggetto femminile.

Fin da bambina è penalizzata nei confronti del fratello in quanto costretta a compiere lavori domestici che tolgono tempo agli studi; subisce poi delle molestie da un parente, e quando sembra aver trovato l’amore della sua vita, viene lasciata sola, scoprendosi incinta, non prima di aver ricevuto l’offerta di prostituirsi.

Non mancano però osservazioni più ampie. Viene mostrata l’influenza negativa che genitori litigiosi e abbrutiti possono avere su figli che non si sforzano nemmeno di comprendere, nonché come l’omologazione del pensiero possa trasformare la scuola in un luogo di spersonalizzazione. Nel complesso viene delineato un mondo dove un soggetto in una posizione di debolezza ha poche possibilità di migliorare la sua prospettiva.

Mettendo in scena un compendio di abusi di vario tipo che una singola donna può subire, ha la sua forza nel non risultare affatto iperbolico, dimostrando come tutto ciò possa, visto la condizione della donna, essere purtroppo realistico. Concludendosi con un appello alla solidarietà, My Life I Don’t Want dimostra grande sensibilità nel trattare queste tematiche, sfruttando le possibilità dell’animazione per ottenere un’opera di sintesi e dal forte valore emotivo, con la delicatezza di modellare lo stile figurativo a seconda dell’argomento trattato, facendosi più vago e allusivo quando si tratta di raccontare il sesso e le molestie, ma mantenendo sempre il discorso chiaro e inequivocabile.

Giacomo Fiorani


#WHOWEKILL

Regia: Pavel Ivanov

Russia, 2016 – 8’

Sezione: International Short Film

Sinossi: Ogni individuo è libero. Ogni cosa è possibile. Si può dire e fare e fare ciò che si vuole, ma bisogna essere coerenti con le proprie azioni ed essere certi che queste rispettino la propria parola.

Una misteriosa organizzazione si occupa di punire i cosiddetti “leoni da tastiera” ponendoli di fronte a un tragico bivio: compiere realmente le minacce che hanno effettuato sul web o utilizzare gli stessi social network per ritrattare e ammettere la propria vigliaccheria. A essere oggetto d’attenzione di questo efficace cortometraggio è il cyberbullismo nella sua attuazione più estrema: la minaccia di morte.

Quello che l’organizzazione si propone è una clamorosa (e provocatoria) ricongiunzione fra la sfera del virtuale e quella del mondo reale, con la prima non più potenziale sinonimo di anonimato, menzogna e labilità, ma specchio fedele di azioni e intenzioni concrete. Una ricongiunzione, quella fra virtuale e reale, che cerca di far ordine in un universo per sua natura ambiguo. In tal senso la vicenda del protagonista, costretto prima a vestire i panni di un potenziale assassino e poi, quando il peggio sembra passato, quelli di una potenziale vittima, è emblematica: ci ricorda che in un far west mediatico dove le regole vengono meno non ci sia un vincitore, e i ruoli di vittima e carnefice siano sorprendentemente intercambiabili.

Lungi dall’avere la pretesa di articolare un discorso compiuto su un tema tanto attuale quanto complesso, #WhoWeKill valorizza la forma breve del cortometraggio trovando la sua forza nell’immediatezza, pungendo lo spettatore con una domanda semplice e scioccante, che è quella che i membri dell’organizzazione implicitamente pongono alle loro vittime: “faresti davvero quello che scrivi sui social?” Assumendo a tutti gli effetti la forma del thriller, il cortometraggio fa uso dei generi per un discorso sociale delicato, coniugando intrattenimento e critica dei costumi, rendendo cool l’afflato moralista che lo pervade.

Giacomo Fiorani


“THE EXIT

Regia: Hsiao Hsuan Liu

USA, 2017 – 5’

Sezione: Short Short

Sinossi: Un ragazzo si risveglia da un incidente d’auto ma intorno a lui non c’è nessuno. Troverà un garage pieno di ricordi che credeva perduti.

Un uomo sopravvive a un incidente stradale. In stato confusionale barcolla per una strada che nessun altro percorre. Porta con sé una foto strappata: la metà che ha conservato ritrae lui stesso. È chiamato a risolvere un rompicapo fra sogno e realtà, a ricomporre un puzzle che nasconde la sua salvezza e il ricongiungimento con ciò che più ama.

Nel delineare questa ricerca, The Exit gioca con lo spazio e con il suono. Il primo si fa palcoscenico simbolico, e se la strada deserta esprime la perdita e il disorientamento, il garage al quale il protagonista approda successivamente è invece il luogo della memoria, che si contrappone alla strada per la ricchezza di oggetti e di significati in esso affastellati: indizi, per il personaggio e per lo spettatore, che lo spazio racchiude, nasconde e svela al contempo. Così come indizi veicola il suono, o meglio i suoni, utilizzati anche con l’effetto di compenetrare le dimensioni di sogno e realtà.

Nella sua brevità The Exit sfrutta in modo preciso ed essenziale le possibilità del mezzo cinematografico per proporre allo spettatore un percorso di forte impatto emotivo.

Giacomo Fiorani


THE COLORFUL LIFE OF JENNY P.

Regia: Daniele Barbiero

Italia, 2017 – 5’

Sezione: Short Short

Sinossi: Il nonno di Jenny riesce a farle vedere il mondo a colori. Ma ogni cosa ha una fine e per la piccola è giunto il momento di affrontare una triste realtà…

The Colorful Life of Jenny P., diretto da Beppe Gallo, è il poetico affresco di un’assenza, la trasfigurazione in forma espressiva di un desiderio inappagabile di colmare un vuoto affettivo, e allo stesso tempo, presumibilmente, un sentito omaggio autobiografico. Il film è costruito come una successione quasi frenetica di immagini suggestive, in cui uomo e paesaggio si confondono nella sollecitazione di un profondo sentimento panico. “Colorful” è il film stesso, che tanta attenzione presta alla fotografia, alla modellazione della luce naturale e, di conseguenza, al valore espressivo delle componenti coloristiche. Ogni elemento del profilmico è elaborato per essere funzionale a coinvolgere lo spettatore in maniera viscerale, andando a far vibrare corde emotive nascoste. Il trauma della perdita di una persona cara, comune a qualsiasi essere umano, viene elaborato visivamente a partire da una grande conoscenza tecnica delle potenzialità fascinatorie del mezzo cinematografico, in sede di postproduzione ancor più che di regia. L’unico rischio potenziale del film è di apparire artefatto, a fronte di un così massiccio lavoro di intervento sui materiali profilmici di partenza; ma è un rischio calcolato dal regista, che si destreggia nel registro del lirismo, puntando a un elevata poeticità della forma.

Nicolas Bilchi


MISTERIOSOFICA FINE DI UNA DISCESA AGLI INFERI

Regia: Giuseppe Bucci

Italia, 2016 – 14’

Sezione: Italian Short Film

Sinossi: Due frammenti tratti dallo spettacolo teatrale Scannasurice. Un femminiello napoletano, cantastorie di una Napoli che fu e che, sventrata dal terremoto del 1980, non sarà mai più, si abbandona a un confronto con se stesso, transessuale senza amore e dignità; reietto ed emarginato, come il popolo dei topi con i quali vive.

Misteriosofica fine di una discesa agli inferi di Giuseppe Bucci è molto più di un esperimento di “teatro filmato”, espressione ambigua e abusata di fronte a operazioni intermediali che cercano di scavare in profondità nel rapporto tra cinema e teatro.

L’operazione compiuta dal regista, all’insegna dell’ibridazione dei linguaggi, si dà come elaborazione cinematografica di un vero spettacolo teatrale, Scannasurice di Carlo Cerciello: la videocamera, e gli spettatori con essa, si lascia rapire dalla travolgente potenza espressiva di Imma Villa, nel ruolo di una figura metafisica, allegorica, a cui l’energia recitativa dell’attrice conferisce al contempo una concretezza dolorosamente umana. L’abilità di Bucci sta nel mantenere l’equilibrio tra intervento autoriale e restituzione fedele dell’originale teatrale: il montaggio di Misteriosofica è intenso, e la composizione interna delle inquadrature sempre attentamente curata, con particolare attenzione alla scelta dell’angolo di ripresa e ai rapporti plastici tra gli oggetti in campo; eppure, tutto ciò risulta “naturale”, e la componente stilistica non sovrasta mai gli straordinari monologhi di Villa.

Anzi, lo sguardo del regista si fa osservatore attento e affascinato della performance che ha di fronte. Per meglio interpretarne il mistero, si arma degli strumenti che il linguaggio cinematografico mette a disposizione; ne usufruisce senza timore, ma anche con una profonda consapevolezza estetica: quella di non dover mai fare violenza nei confronti dei materiali (del profilmico) su cui sta lavorando. Tanto più che il materiale, in questo caso, è il mistero dell’arte della recitazione, portato a vette altissime dal talento sensuale di Imma Villa.

Nicolas Bilchi


POLIS NEA

Regia: Pierluigi Ferrandini

Italia, 2017 – 16’

Sezione: Italian Short Film

Sinossi: 2037, Polignano a Mare, perla del Sud Italia. La maggior parte della popolazione adesso è straniera, tanto che la lingua parlata è diventata l’inglese e addirittura il suo nome è stato trasformato in Polineano. In un caldo giorno di primavera, la vita di una famiglia britannica, proprietaria di una delle case più belle del centro storico, è scossa dall’arrivo di un anziano pugliese, gravemente malato di Alzheimer, seguito dal suo nipotino.

Nel 2037 la città di Polignano a Mare è ormai abitata esclusivamente da cittadini di origine straniera, e se da un lato è stato rimosso il tessuto sociale originario della città, dall’altro i nuovi abitanti dimostrano di custodire e valorizzare il territorio con grande capacità. Ciò è ben espresso dalla scelta di toponomastica voluta dal sindaco: ribattezzare la città Polineano ha significato elidere una “g” impronunciabile per gli anglofoni, ma essi rivendicano la validità culturale di tale scelta riferendosi alle radici storiche della città (Polis Nea in greco, Polineanum in latino).

I nuovi abitanti esibiscono un sorprendente mix di tecnologia futuristica e passione archeologica. Non sono semplici turisti nella loro casa di villeggiatura: la famiglia protagonista del cortometraggio pratica la pesca secondo modalità hi-tech e serve il cibo in un bistrot.

Se dunque i nuovi abitanti dimostrano di muoversi agilmente fra passato e presente proiettandosi nel futuro, diversa è la situazione degli ex abitanti della città. L’altra famiglia protagonista, infatti, originaria del luogo, vive in una periferia degradata; ha abbandonato la loro casa nel centro storico perché non aveva acqua corrente e servizi igienici, ha abbandonato anche la pesca perché non più redditizia – tutti problemi superati agilmente dai nuovi abitanti.

Dietro questo scarto si cela il fatto che per la popolazione originaria la città è sempre stata vista come il passato, anzi, come il vecchio, come una zavorra che impedisce uno sviluppo economico e sociale. Polis Nea ci invita dunque a riscoprire e valorizzare le risorse del nostro territorio, e lo fa coinvolgendo direttamente lo spettatore, valorizzando al meglio la bellezza del luogo attraverso un sapiente uso delle scenografie e del paesaggio.

Giacomo Fiorani


IL PROFUMO DELLE STELLE

Regia: Francesco Felli

Italia, 2017 – 12’

Sezione: Italian Short Film

Sinossi: Nino, uscito da un manicomio dopo trent’anni, non riesce a vivere in modo diverso. Lo stesso succede ad Adriano, un dottore dell’ospedale, che buttato fuori casa dalla moglie non ha il coraggio di affrontare la vita. Ma entrambi riscopriranno il significato delle piccole cose.

Il profumo delle stelle, di Francesco Felli, è un film intenso e doloroso, la cui trama è funzionale a sviluppare una sofferente, ma al tempo stesso piena di speranza, riflessione sulla difficoltà di continuare a vivere (e non solo “andare avanti”) di fronte agli imprevedibili sconvolgimenti della vita. È la storia di un’amicizia che nasce proprio dalla comune disgrazia, tra un medico e un ex internato in un ospitale psichiatrico. L’uno e l’altro, scacciati dal loro habitat precedente (il primo dal focolare domestico, il secondo dalle mura dell’ospedale), si ritrovano senzatetto e, in questo simbolico azzeramento delle rispettive identità sociali, riscoprono il valore delle piccole cose e, compiendo un graduale e quasi inconsapevole processo di elaborazione del dolore che nasce proprio dal reciproco confronto, imparano a ritrovare il coraggio di voltare pagina.

L’arduo compito di costruire personaggi tali senza mai scivolare in un sentimentalismo fine a se stesso, è affidato a due attori di eccezione: Alessandro Haber e Giorgio Colangeli. In una costante gara di bravura attoriale, questi grandi nomi del cinema d’autore italiano riescono nell’intento di definire delle psicologie i cui tratti emergono da gestualità e dettagli minimi, con una naturalezza e una forza emozionale che solo due interpreti di tale caratura possono apportare a una sceneggiatura. Sostenuti dall’impeccabile regia di Felli, che alterna diversi registri visivi, con un peculiare gusto per l’elaborazione plastica delle composizioni geometriche e per la creazione di immagini percettivamente e cognitivamente brutali, appositamente pensate per scuotere in maniera profonda lo spettatore, come nelle improvvise e abbaglianti scene ambientate all’interno del manicomio.

Nicolas Bilchi


LA NOTTE DEL PROFESSORE

Regia: Giovanni Battista Origo Italia, 2016 – 20’

Sezione: Italian Short Film

Sinossi: Le tre del mattino. Sergio e sua moglie dormono profondamente quando il trillo del telefono irrompe nel loro sonno. Dall’altro capo, la voce esitante di un uomo avverte: “Qui sotto c’è un morto”. La strana chiamata darà inizio a una singolare indagine che pianerottolo dopo pianerottolo, coinvolgerà gli inquilini in un bizzarro Cluedo condominiale. Ma le cose, a volte, non sono ciò che sembrano…

La notte del Professore, diretto da Giovanni Battista Origo, è un piccolo gioiello di comicità “alta”, mai volgare, un film profondamente ironico ma permeato in sottofondo da una sottile amarezza e da una pungente critica sociale. L’anonima telefonata che comunica a uno degli inquilini di un condominio la notizia che qualcuno, all’interno del palazzo, è morto, è il motore scatenante di una perturbazione dell’ordine del microcosmo condominiale, dominato dai drammi personali dei proprietari degli appartamenti e dalle piccole ipocrisie di una convivenza sociale imposta. La linea mistery sull’apparente decesso di uno dei personaggi gioca fino a un certo punto un ruolo marginale, funzionale all’esplodere delle contraddizioni interne, in cui riemergono, come un rimosso psicoanalitico, le disparità sociali e culturali. Salvo poi aprirsi a un finale carico di positività, che trascende le reciproche conflittualità in virtù di un sentimento più profondo e panico cui i personaggi sembrano attingere nel momento in cui il mistero dell’uomo morto viene svelato.

Un film corale, dunque, sorretto da una sceneggiatura impeccabile che riesce a gestire senza la minima sbavatura una grande quantità di personaggi, delineando per ognuno un profilo psicologico ben preciso nonostante la breve durata del film stesso. Un’operazione che ricorda la maestria di un autore come Robert Altman, tanto per la struttura multi-focalizzata su una mole inusitata di interpreti, quanto per la squisita ironia serpeggiante dietro la “tragicommedia umana” messa in scena. E il paragone non è da poco.

Nicolas Bilchi


LOOP

Regia: Luca Metodo

Italia, 2016 – 11’

Sezione: Italian Short Film

Sinossi: Dopo aver trovato una pistola, tre ragazzi giocano per divertimento alla roulette russa. Si sfidano con il loro coraggio e il loro istinto, commettendo però un errore.

Il cortometraggio Loop, di Luca Metodo, tratta della realtà dei ragazzi di strada. Esso, come diverse opere degli ultimi anni, complice il successo di Gomorra di Matteo Garrone, è ambientato in una periferia degradata della Campania, in cui domina incontrastata la legge del più forte.

Un ragazzino, dopo aver subito le angherie di due ragazzi più grandi di lui che hanno provato a derubarlo, trova una pistola abbandonata per terra. Vincenzo, questo è il nome del ragazzino, fiero della sua scoperta, corre da due suoi compagni per esibire l’arma, e uno di loro sfida gli altri a giocare con essa alla roulette russa. Dopo che i suoi compagni hanno già provato, è il turno di Vincenzo, che viene deriso perché la pistola si è rivelata finta: egli però, invece di rivolgere la pistola alla sua tempia, la rivolge contro i suoi due compagni, uccidendoli sul colpo.

Loop descrive molto bene la realtà quotidiana dei ragazzi di strada tipica di molte periferie del meridione, contraddistinta da una violenza feroce basata sulla logica della sopraffazione: è in questo contesto che esplode improvvisa la follia di Vincenzo, sintomo estremo dell’assoluta mancanza di umanità che lo circonda.

La cruda quotidianità degli scugnizzi, unici protagonisti del cortometraggio (la totale assenza di una figura adulta evidenzia ancor più l’estrema condizione dei ragazzini, che sembrano non dover rispondere delle loro azioni a nessuna autorità, vivendo quasi in uno stato di natura), è resa molto efficacemente anche dallo stile delle riprese. Esse sono infatti contraddistinte da una camera mossa, tesa a cogliere, zavattinianamente, la realtà nel suo farsi, e da un montaggio veloce e serrato, come sono le azioni dei protagonisti del cortometraggio, costretti, per non venirne travolti, a misurarsi con una realtà che mette alla prova tutti i giorni la loro capacità di resistere.

Luigi Valenti


L’ANSIA DEL GIALLO

Regia: Viola Folador

Italia, 2017 – 20’

Sezione: Italian Short Film

Sinossi: Per Sam la felicità è il colore giallo. E Sam ha deciso che questo è un giorno importante: questo è il giorno in cui morirà. Perché Sam ha l’ansia del giallo. Ma se proprio oggi Sam trovasse un carillon giallo davanti alla porta di casa? Cosa accadrebbe?

L’ansia del giallo ci mostra una coppia, Victor e Samantha, in due momenti assai lontani fra loro. Giovani, i due si conoscono e l’amore li unisce. Si tratta però di un racconto che l’anziano Victor mette nero su bianco nel momento in cui una grave malattia di Sam rischia di separarli per sempre. Fra questi due momenti, alternati e mescolati fra loro più volte, si articola con poesia e vivacità un cortometraggio che ha la capacità di trattare temi quali la malattia e la depressione in modo leggero, con dolcezza quasi fiabesca. Merito soprattutto di una regia che utilizza colori e figure per plasmare un mondo suggestivo, variando sapientemente il ritmo a seconda che il racconto sia rappresentato direttamente o evocato dalla voce fuoricampo.

Ne L’ansia del giallo centrale è l’atto stesso del racconto, della narrazione, che assume valenze diverse. In primis, il racconto è finzione. La rievocazione del primo appuntamento fra Victor e Sam è la storia di un amoroso inganno, di una rocambolesca macchinazione ovvero, fondamentalmente, di una messa in scena. Il mondo diegetico di questo cortometraggio d’altronde è un mondo dove la narrazione e il racconto plasmano il mondo stesso, un mondo fatto di oggetti e colori simbolici, dove la felicità è un colore e un giro di carillon.

Il racconto è anche memoria: nel momento in cui Victor rischia di perdere Sam, è tramite il racconto che cerca di cristallizzare e fermare ciò che può sfuggire, ricongiungendo magicamente la fine di una storia con il suo inizio.

E, sospeso fra finzione e memoria, il racconto, assume forse una misteriosa terza valenza, quella di redimere la sofferenza, di tratteggiare la speranza dell’eternità, di rendere la vita un unico giro di carillon.

Giacomo Fiorani


STELLA 1

Regia: Roberto D’Ippolito e Gaia Bonsignore

Italia, 2017 – 15’

Sezione: Italian Short Film

Sinossi: C’è qualcuno nello spazio che sta chiamando, ha bisogno di aiuto per portare a termine la sua missione. Il suo nome è Stella ed è una bambina astronauta.

Stella 1, di Gaia Bonsignore e Roberto d’Ippolito, è un film che colpisce per la delicatezza e la dolcezza di cui è profondamente infuso. I due autori raccontano una storia semplice, quasi banale; ma sono le modalità attraverso cui l’intreccio si sviluppa che rendono Stella 1 un prodotto degno di interesse. La realtà è filtrata dallo sguardo di un bambino, quel che lo spettatore vede è il suo mondo fantastico, nel quale è giocosamente invitato a immergersi. Dietro tale scelta stilistica si pone un’idea di cinema assai precisa: il cinema come macchina dei sogni, soglia verso una virtualità in grado però di agire in modo molto concreto sulle emozioni e sul pensiero, grande materializzatore delle nostre fantasie, paure, desideri.

La corrispondenza con il modo di elaborare il mondo tipico di un bambino risulta quindi assolutamente pertinente con l’estetica di Bonsignore e d’Ippolito; anzi, ne costituisce quasi una rappresentazione metalinguistica: la materializzazione delle fantasie infantili invade la fattura stessa dell’opera, che non a caso si serve in maniera impeccabile delle tecniche di elaborazione dell’immagine che il digitale mette a disposizione. La componente visivamente più attraente del film è senza dubbio costituita dalle sequenze in cui si fa massiccio uso degli effetti speciali; con notevole abilità e competenza tecnica, i registi si cimentano con la CGI per rendere presente allo spettatore il mondo di sogno del protagonista del film, in tutta la sua vividezza.

Nicolas Bilchi


GOES WITHOUT SAYING

Regia: Pierre Sabrou

Francia, 2016 – 12’

Sezione: Student Film

Sinossi: 1927. Charles incontra Marguerite, una lavandaia di cui subito si innamora. Charles prova a farle la corte, ma i suoi tentativi non faranno altro che allontanarlo da lei. All’improvviso si ritroverà in un mondo sconosciuto.

Questo student film compie un ambizioso percorso, destreggiandosi fra le due epoche della storia del cinema: il muto e il sonoro. La prima parte ci propone un film muto, con bianco e nero in soft focus, formato 4:3, commento musicale pianistico e una recitazione slapstick, con evidenti riferimenti al cinema di Chaplin e Keaton. Qui il protagonista s’innamora di una giovane lavandaia, ma a causa di una bizzarro malinteso si ritrova inseguito da una minacciosa massaia.

Fuggendo, il protagonista giunge in un giardino, stilisticamente presentato con formato panoramico, colori, suoni diegetici e un commento musicale più discreto. Egli stesso rimane disorientato da colori e suoni, nonché dalla naturalezza dei movimenti dei passanti, in totale contrasto con l’espressivo linguaggio del corpo di tipo slapstick che continua a contraddistinguere il nostro.

Vi è infine un terzo spazio, dal quale il protagonista inizialmente rifugge: la strada esterna, trafficata e caotica, presentata con una fotografia e un suono assai più ruvidi e un montaggio più frenetico, che può simboleggiare un cinema dove l’artificio è ridotto al minimo, se non la realtà stessa.

L’intuizione di questo cortometraggio è dunque quella di proporre tre diversi registri di rappresentazione della realtà come tre spazi fisici che il protagonista percorre come un itinerario.

Quello che Ça va sans dire sembra quindi suggerirci è il considerare la profonda compenetrazione di ciò che sembra lontano, un tout se tient espresso chiaramente nel finale, laddove il protagonista e la sua donna, ormai felicemente insieme, affrontano il caotico spazio esterno, la Realtà, ma lo fanno entrando in un’ultima inquadratura – un campo lungo di loro due che si allontanano mano nella mano – dal chiaro sapore chapliniano.

Giacomo Fiorani


LABELED

Regia: Ken Davis e Emily Atkins

USA, 2016 – 1’

Sezione: One Minute Short Film

Sinossi: Una ragazza ordina una macchina fotografica online, senza sapere che insieme a questa arriverà qualcos’altro.

Labeled, statunitense, per la regia di Ken Davies e Emily Atkins, si rifà a un immaginario di genere disparato e riesce, in appena un minuto, a integrare in maniera coerente riferimenti allo slasher movie e al finto snuff movie, sul modello di Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Il collegamento a questo film ormai “cult” non è peregrino: la morte è visualizzata dapprima nei falsi (?) found footages ritrovati dalla protagonista all’interno della macchina fotografica, con una delle immagini che sembra omaggiare esplicitamente la pellicola di Deodato; è poi preannunciata dall’apparire del killer sulla scena, “Altro” che concretizza l’orrore provocato dalle immagini e ne supera la distanza di sicurezza garantita dalla mediazione del computer.

Nicolas Bilchi


THE PENCIL

Regia: Basile Vuillemin

Svizzera, 2017 – 1’

Sezione: One Minute Short Film

Sinossi: Una matita dalla punta smussata è assolutamente inutile. Meglio temperarla.

In Le crayon, dello svizzero Basile Vuillemin, la morte ha una consistenza surreale, ironica e beffarda, la cui totale inverosimiglianza è suggerita anche dal movimento di macchina che la accompagna.

Nicolas Bilchi


BLACK

Regia: Yavuz Üçer

Turchia, 2017 – 1’

Sezione: One Minute Short Film

Sinossi: Sei persone. Sei motivi diversi. Lo stesso destino.

Il turco Yavuz Üçer, con Black, coniuga la denuncia di un tema sociale importante (quello dei suicidi di persone giovani) con uno stile che si rifà al cinema d’autore: inquadrature fortemente formalizzate, dalla fotografia vivida che esalta la carnalità dei soggetti inquadrati, che si stagliano con la ieraticità di statue sacre su un fondo nero funereo ma anche pudico, segno della dolorosa partecipazione con cui il regista testimonia la tragedia di queste vite spezzate.

Nicolas Bilchi


PULPETTE

Regia: Michele Bevilacqua

Italia, 2017 – 3’

Sezione: Web series

Sinossi: Ai confini di una sciatta periferia, tre uomini disperati gestiscono un furgoncino dove friggono solo polpette. Polpette che non compra nessuno perché non c’è nessuno. Un incidente, causato da una loro stessa polpetta, cambierà la sorte del loro sfortunato business.

Pulpette, web series di Daniele Bevilacqua, è un prodotto confezionato in modo accurato, perfettamente rispondente agli interessi di una certa audience tipica del web. Siamo chiaramente di fronte a un prodotto di intrattenimento, che esibisce senza vergogna la propria natura “mainstream”, e che costruisce il proprio fascino sulla combinazione di comicità e focalizzazione, seppur in modo frivolo e ironico, su tematiche di interesse di massa del contemporaneo come, nel caso dell’episodio qui presentato, l’emergere di nuove nicchie identitarie sociali quali il movimento vegan. Lo stile di Pulpette si richiama in modo esplicito all’estetica minimalista delle sit-com televisive stile Camera Café, basate su un principio addizionale, per cui dalla somma dei contenuti delle singole inquadrature scaturisce l’effetto comico. Ma tali semplici (ma efficaci) soluzioni sono accompagnate da un gusto visuale insolito, evidente nella modellazione delle immagini che risponde a precisi parametrici grafici, che sembrano suggerire dei collegamenti tra i frame e i fumetti. Così come l’uso di un fondale chiaramente in green screen, che “stacca” in modo netto rispetto al personaggio posto al centro dell’inquadratura, creando un effetto straniante e antinaturalistico, è una soluzione che evidenzia una certa tendenza metalinguistica nella regia di Bevilacqua; cosa che non deve comunque sorprendere, perché qui l’effetto metalinguistico non è cercato per produrre un’autoriflessività ma, all’opposto, appare rispondente alla logica delle web series, che invitano a una fruizione distanziata, da prendere alla leggera.

Nicolas Bilchi

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